31 Marzo 2011
Le lunghe ombre del diritto
ciclo di incontri e discussioni
* Introduzione
* “Sovranità e Polizia”: una discussione sullo stato di eccezione a partire dalla nuova traduzione del testo di Walter Benjamin “Per la critica della violenza”. Partecipano Massimiliano Tomba, curatore del libro, e Stefano Marchesoni.
motivazioni, referenze e programma completo –>
a cura dell’Archivio Primo Moroni
Per una riflessione sul sistema penale
Vogliamo (ri)proporre una riflessione sulla “penalizzazione della società”. Espressione questa che porta in sé l’ambivalenza dei processi che si vogliono analizzare: le trasformazioni del diritto in quanto norma e l’estensione dello stesso su tutti gli ambiti sociali tanto da prefigurare una società sottoposta e governata dalla penalità. È del tutto evidente che questo processo ha lavorato precedentemente su una interiorizzazione culturale massificata che si costituisce come presupposto: l’identificazione del piano della giustizia penale con il piano della verità e del crimine come elemento centrale per la definizione delle politiche di governo.
La giustizia è lo strumento per la determinazione della verità. Laddove esista una potenziale ‘colpa’, o forma di disequilibrio, il tribunale è il luogo atto a ristabilire la corretta dinamica dei fatti e quindi a ripristinare una condizione di ordine imponendo le necessarie sanzioni.
Prima ancora di occuparci delle sanzioni va detto che questa affermazione è falsa. Il tribunale non ha né gli strumenti né la volontà di stabilire quella che è la verità dei fatti, la dinamica delle relazioni, il senso dell’operato della parti in causa. Il tribunale, al più, può stabilire con una imprevedibile dose di approssimazione il comportamento dei soggetti rispetto alla norma, collocarli e stabilire se e come l’abbiano infranta. Nella versione più ottimista l’attività della corte è quella di identificare delle similitudini tra diversi eventi delittuosi in modo da uniformare la pena e la sanzione e fare quindi in modo che queste non siano inique a loro volta.
Ma la norma stessa non ha alcuna ambizione a farsi verità. Però l’idea che ciò che è legale è giusto e viceversa si dimostra di grande efficacia e la ritroviamo sorprendentemente anche in ambiti antagonisti al sistema dominante. Questo deve farci riflettere sulla sua potenza comunicativa.
Altro concetto fondamentale su cui il processo di “penalizzazione della società” si basa è l’identificazione di un individuo, di una comunità e in alcuni casi dell’intera società con le “vittime” potenziali del crimine. Le politiche securitarie in atto da anni, in Italia, in America come in tutto il mondo occidentale, infatti, non solo determinano una mole non indifferente di produzioni di norme, ma definiscono e declinano i bisogni di una comunità. In questo senso il potere sprigiona la sua microfisica invadendo l’ambito delle relazioni e degli affetti che diventano suo oggetto specifico di intervento come Foucault ben descrive in Difendere la società, Ponte delle grazie, 1990.
D’altronde una razionalità securitaria si esplica su un immaginario in cui la società è vittima del terrorismo, una comunità è vittima di altre comunità e perfino un individuo è vittima di determinati comportamenti di altri individui. La segmentazione sociale è tra vittime e carnefici e induce un sentimento di identificazione con la vittima CONTRO il colpevole. Questo arriva a declinare i bisogni sociali: ho diritto di dormire rispetto agli schiamazzi, ho diritto di passeggiare senza vedere persone con bottiglie in mano o secchi ai semafori ecc. ecc. e legittima implicitamente, anche per chi non ne avrebbe né intenzione né desiderio, le politiche di repressione ed esclusione.
La conseguenza, quindi, è che la sfera del diritto si stia allargando in maniera impressionante e il numero e la qualità dei comportamenti normati aumenti di giorno in giorno. Questo avviene sia sul piano del diritto penale vero e proprio sia su quelli delle norme extra-giudiziarie (ordinanze comunali, patti territoriali…) che vengono propagandate come lo strumento più idoneo per affrontare le conflittualità sociali o individuali o anche solo per definire delle modalità di comportamento adeguate e sanzionare quelle inadeguate.
Il diritto sta diventando la modalità di approccio più comune alle forme di conflitto (sociale o personale, individuale o collettivo) che attraversano le nostre città. Una manifestazione operaia diventa ‘blocco stradale’, – ‘ingiuria e oltraggio” , l’esproprio di un grande magazzino diventa ‘rapina’…. Il fatto scompare dietro l’ombra della norma infranta. Chi e perché fosse lì a fermare il traffico, a bestemmiare, a prendere degli indumenti da un grande magazzino non è più un elemento su cui ragionare.
È facile in questo modo tendere a far rientrare negli ambiti del diritto i comportamenti che risultano ‘deviare’ dal luogo comune della ‘acquiescente normalità’ siano essi espressione di una consapevole alterità rispetto all’organizzazione sociale dominante o siano invece una inconsapevole espressione di incompatibilità con i modelli di vita ritenuti ‘leciti’.
Il diritto sempre più tende a porsi come regolatore dei comportamenti, delle intenzioni, delle personalità. Un caso smaccatamente evidente in questo senso è il reato di clandestinità che ‘norma’ una condizione di vita, una storia, più che un fatto specifico. Un clandestino che dorme, mentre dorme, sta compiendo il suo reato.
I patti delle amministrazioni comunali raggiungono ambiti ancora esclusi dal diritto giuridico.
L’ingresso ai campi nomadi è regolato (con tanto di polizia all’ingresso) sulla base di un patto tra il comune e le persone che stanno nel campo che permette al personale all’ingresso di fare entrare o meno gli esterni nel campo. (dispositivi analoghi sono stati utilizzati nei campi dei terremotati aquilani nel periodo del G8).
Le ordinanze comunali ci indicano, sotto la minaccia di sanzioni, come e dove mangiare i panini, darci i baci, sederci e ci fanno capire da che parte conviene stare.
Questa criminalizzazione delle relazioni non avviene in sordina ma anzi è ostentata, è essa stessa strumento di propaganda. Senza pudore seziona la società in parti arbitrariamente definite e trova la principale giustificazione e forza nell’essere prodotto della norma, che viene propagandato come uno tra i principali strumenti di definizione della verità.
Se nella guerra, emergenza per definizione, il ruolo di regolatore è specifico degli eserciti, nell’emergenza quotidiana e perenne questa funzione è delle forze di polizia, anzi, anche le azioni degli eserciti diventano azioni di polizia: il blocco delle navi aiuto alla Palestina da parte di Israele ne è un esempio.
In questo quadro emergenziale dove la politica ha affidato la sua funzione al diritto, la funzione politica viene fatta propria dalle forze di Polizia, assumendo così una funzione di mediazione e diventando “sovrana” nelle decisioni ovvero determinando quando e come intervenire. (tanto più la legge è pervasiva quanto più esercito e polizia sfuggono alla legge)
Lo scopo di questa riflessione è quello di verificare le sue stesse ipotesi, darne una connotazione più precisa e rigorosa, smontare (ove necessario) gli assunti che ne stanno alla base e riflettere sui loro aspetti indotti ma per niente trascurabili.
Ci sembra, inoltre che la società autoritaria sezionata dalla regola tende ad auto-riprodursi e il diritto ne diviene efficiente sistema di propaganda per un efferato immaginario sanzionatorio, immaginario dal quale non si sottraggono figure a la page come Saviano e costringe il confronto tra chi vuole mandare in galera Berlusconi, chi gli extracomunitari, chi Battisti, chi altri ancora, in ogni caso tutti dentro un orizzonte rigorosamente penale. Sottraiamoci
Su questi punti l’idea è quella di articolare una serie di incontri, in particolare ma non necessariamente con la presentazione di testi, per affinare il ragionamento.